Caldeggio
vivamente Vecchi scemi, l’ultimo
libro del poeta fanese Marco Ferri. Soprattutto ne consiglio la lettura ai
giovani odierni che, se tanto mi dà tanto, con ogni probabilità saranno i
vecchi scemi di domani.
Ma teniamoci al presente, e dunque oggi
chi sono mai, per Ferri, questi vecchi scemi? La domanda viene spontanea,
perché qualificare scemi i vecchi è cadere in un luogo comune, non meno trito
di quello per cui vecchiaia equivale a saggezza.
Dalla lettura dei tredici “pezzi” che
compongono il libro si scopre che i vecchi in questione, avviliti o irati,
sognanti o alle prese con il “logorio della vita moderna” (come diceva Ernesto Calindri
ai tempi della tivù in bianco e nero, o postmoderna, come adesso si preferisce
dire), hanno sì, è vero, dei problemi di senilità, degli acciacchi fisici,
delle amnesie e così via, ma tutto sommato ragionano ancora e non sembrano poi
tanto suonati, tant’è che io, che vado per i sessanta, non ho faticato molto a
riconoscermi in certe loro fissazioni, ansie, sconfitte, malinconie, rancori
più o meno trattenuti, quindi non credo di dire una sciocchezza se affermo che
l’autore, che va per i settanta, ne parla a ragion veduta. E d’altra parte
ironia e autoironia sono atteggiamenti caratteristici di quell’uomo colto, e va
da sé intelligente che è Ferri, come sanno i suoi vecchi (sic) e affezionati
lettori, tra i quali mi annovero.
L’aggettivo scemo del titolo, che rimanda sia all’accezione di “non pieno,
mancante di una parte” (haud plenus) che a quella dispregiativa di “deficiente,
stolto, stupido, sciocco” (insanus homo), va perlomeno ripartito equamente tra
i protagonisti di queste pagine e il mondo che li circonda, di chi a priori li
considera appunto scemi.
Gli attempati soggetti maschili e
femminili presi in esame da Ferri soffrono infatti, in primo luogo, di
solitudine, di isolamento, di abbandono, di un pensionamento non dal lavoro ma
dalla vita, di un essere accantonati non richiesto, imposto dai parenti, dalla
comunità, dalla società massmediatica dell’usa e getta… che poi, volendo essere
tendenziosi, è la condizione in cui si trovano a vivere oggi i poeti vecchio
stampo, quelli un po’ su con gli anni per intenderci, i quali si ostinano a
scrivere libri magari belli e utili, però poco adatti al commercio… come implicitamente
sembra suggerire il risvolto di copertina, laddove si legge che «i personaggi di questo libro
hanno sguardi disincantati e crudi. E forse sta qui il punto, perché sono
invecchiati proprio per guardare oltre le cose e attraverso il familiare
aspetto che esse hanno. E se insistono sono anche un po’ scemi.»
Il suddetto risvolto (anonimo) avvisa inoltre
di tredici “racconti”, ma certo per comodità, perché racconti in senso stretto
non sono, piuttosto si tratta di descrizioni di tranches de vie, di un
succedersi di fotogrammi – e giustamente Enrico Capodaglio poteva parlare, già
a proposito di Dove guardi (2001) di «inquadrature sottili da
fotoreporter della vita interiore» e di «paesaggi urbani alla maniera di Sironi
e piani-sequenza che ricordano il primo Wenders.» In effetti hanno tutta l’aria
di sinopie filmiche, il respiro corto e incalzante delle sceneggiature. Leggo a
caso, p. 60: «Che cosa c’è di diverso nel 14 agosto rispetto agli altri giorni?
Niente. È estate, c’è un caldo umido, grosse formazioni di nuvole, la
colazione, il pensiero di arrivare all’ora di pranzo, che sembra un orizzonte
lontano ma non mancherebbero certo le opportunità per arrivarci senza soffrire
come un cane. Sennonché, è ricomparsa la sofferenza senza nome, ristagnante. In
più, piove. Il cielo, zitto zitto, si è oscurato, è caduta qualche goccia,
sollevando un odore di polvere bagnata. Poi è venuta giù una pioggia languida,
snervante.»
Tra i diversi personaggi spicca quello di
Geremia, nome oggi in disuso e che pare riesumato pour cause direttamente dalla
Bibbia (“Il libro più antico del
mondo”, come annotava un divertito Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni), l’impopolare profeta lapidato infine
dai suoi stessi compatrioti, qui senza la lunga e venerabile barba bianca e ripreso
mentre «pensa di farsi due uova al tegamino, a occhio di bue, come diceva sua
nonna, quarant’anni prima, forse anche più», ma non diversamente osteggiato, perseguitato,
vox clamantis in deserto.
g. z.
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Marco
Ferri, Vecchi scemi, Italic Pequod, 2017.