Raffaeli con Ferruccio Benzoni in un locale di Piazza Plebiscito ad Ancona, marzo 1994 (foto g. z.).
Antefatto
per Franco Scataglini
A vent’anni scrivevo poesie come tutti, più o meno. Erano brutte poesie, o
meglio poesie straordinariamente elaborate, oscure, complicate. Leggevo e
rileggevo i poeti di qualunque epoca, e ogni tanto ne scrivevo di mie. Mi
piaceva farlo, pure se mi stremava. Tendevo a considerare una riuscita la loro
complessità, il tot di fatica che richiedevano nel decifrarle, posto che
davvero fosse possibile dedurne un senso. Avevo intitolato la mia raccolta
inedita (in realtà scrivevo a mano su un quaderno scolastico con la spirale)
Rime petrose, pomposamente, per il semplice fatto che la lezione di Gianfranco
Contini (di cui leggevo con avidità gli scritti per averlo sfiorato a Firenze
studiando alla Laurenziana un manoscritto per la mia tesi di laurea) imponeva
al neofita che io ero soggezione immediata alla linea dell’espressionismo e
dello sperimentalismo, dunque a Dante, Campanella, Tommaseo, giù giù fino a Rebora e Montale.
Alcune
poesie le avevo pubblicate, con l’incoscienza appunto dei vent’anni, fra il ’78 e il 1980,
su due riviste: un primo gruppo su “La città futura” (il settimanale dei
giovani comunisti, con una nota incoraggiante di Roberto Roversi) e un secondo
col soccorso di Gianni D’Elia in “Le Porte”,
un fascicolo redatto a Bologna, la città dove avevo studiato, da Gianni Scalia.
(Un altro testo, scritto su commissione, mi era stato pubblicato da “Paese sera” il giorno
dopo la strage
di Bologna del 2 agosto 1980. Aveva
un titolo stupendo, purtroppo non mio, cioè Ho sognato di essere vivo:
era la frase di un sopravvissuto ancora sotto le macerie, ascoltata alla
radio). Intanto, nel settembre del ’79, avevo conosciuto Franco Scataglini e
subito avevo cominciato a frequentarlo, a collaborare con lui. Gli chiedevo di
continuo un giudizio sulle mie poesie, lui pareva avallarle ma nella sostanza
non si sbilanciava, anzi non si pronunciava; così, mi sorprese il fatto che
accettasse la pubblicazione di un terzo gruppo di liriche nella plaquette a sei mani Da una città (Il
lavoro editoriale 1981) a firma
innanzitutto sua e di Francesco Scarabicchi: quelle del sottoscritto erano
particolarmente ermetiche, intarsiate, il loro significato si voleva
premonitorio però, alla lettera, sfuggiva anche a me. Eppure credevo di avercela
fatta. Solo la reticenza di Franco e i suoi silenzi imperscrutabili mi davano
inquietudine. Cominciavo ad avvertire impercettibilmente che quei versi non lo
persuadevano, che qualcosa non andava, e che stava cercando le parole o il
pretesto per dirmelo. Intanto aspettavo, ero ansioso e non avevo modo di
confessarlo nemmeno a me stesso.
Finché
un giorno, all’improvviso, e non c’entrava nulla col discorso che stavamo
facendo, si alzò dalla poltrona del suo
vecchio studio a metà di via Pizzecolli in Ancona (fuori c’era un tramonto incandescente,
entrava dalla finestra una luce bellissima) e mi diede da leggere una pagina che ignoravo, mettendomela proprio
sotto il naso. Si trattava della più folgorante tra le Scorciatoie di
Umberto Saba : “Mallarmé e la Musa. Quando non si può entrare in profondità, si complica e si nasconde. E’
umano ma non nascono figli.” Non c’era altro da aggiungere, l’aforisma diceva tutto. Giorni dopo mi arrivò una sua lettera, come al
solito dattiloscritta, che fu una disperazione e insieme la liberazione.
Era una lettera durissima, spietata, onesta: mi diceva che quei versi gli
restituivano l’immagine di “borchie gelate come dentro cucchiai d’acqua”, che
erano decisamente dotti, che non sfiguravano. Però aggiungeva che non
risuonavano da nessuna parte, che lui non ne sentiva la fondatezza o l’intima
necessità. Insomma essi parlavano, cantavano il loro canto oscuro ma non
“dicevano”, né sapevano vibrare. La lettera aveva un poscritto dove mi
ricordava la tipica e precoce attitudine a puntare il dito tenendo lezione alla
realtà, ma dove mi rammentava altrettanto che la realtà non tollera lezioni
(semmai, viceversa) e meno che mai da
simili lezioni può scaturire la poesia, la quale si origina invece
dall’ascolto, dall’apertura, dall’assoluta messa a rischio di sé.
Per mesi e mesi mi sono sentito ingiustamente giudicato,
sottovalutato, annientato. Stavo male, molto male, e tuttavia non riuscivo a
volergliene. Fatto sta che da allora, smaltendo via via la sofferenza, non ho
più scritto poesie, neanche di quelle che devono restare segrete. Ho continuato
a leggere le poesie degli altri, poi a studiarle, e a scrivere di esse. Infine
il dolore non l’ho più sentito; la ferita che prima sanguinava si è presto
cicatrizzata irrorandosi con le parole che sentivo volta a volta più prossime,
fraterne, e non importa se di altri. E’ così che ho potuto
paradossalmente riconoscere l’amore primordiale per la poesia ed è così che sono diventato un filologo,
per etimologia e per forza. Lo debbo
a Franco
Scataglini, alla sua vicinanza e al
suo affetto, grande e spietato. Questo oggi lo so bene, anche se è troppo tardi per dirglielo, per
ringraziarlo.