Visto non si stampi
Da qualche lustro, e non per hobby, leggo
dattiloscritti di narrativa italiana. Dico subito che il mestiere di lettore
implica, oltre a una certa propensione al masochismo, anche il carico di una
notevole responsabilità morale: forse anche per questo è tra i peggio pagati d’Italia.
Chi manda questi dattiloscritti? Un po’
tutti. Infatti, com’è noto, tutti credono di saper scrivere un romanzo. Carta e
penna sono di uso generale e, così si crede, la lingua italiana, il cui
vocabolario fra l’altro va sempre più comodamente riducendosi. Quindi il
tassista come il cardiologo, il commercialista come il portiere prima o poi un
romanzo rischiano di scriverlo.
Di qui il flusso ininterrotto di narratori
che si abbatte su case editrici e riviste letterarie. L’unica modesta proposta
che ho avuto occasione di fare per arginare l’ondata è il razionamento della
carta: tot carta pro capite, e deve bastare per tutta la vita.
Per di più oggi, a causa dello “scrittore
star” (fotografato, intervistato, televisionato) il settore qui da noi è in
espansione. Dura infatti già da un bel po’ lo show degli scrittori quarantenni
nostrani, e pare inarrestabile la loro promozione anche a
giornalisti-costumisti su quotidiani e settimanali. Cosicché l’Italia che
scrive invia dattiloscritti e insieme la tacita invocazione: aiutate anche me ad
emergere!
Il fatto che rende il tutto vagamente
grottesco è che non esista quasi pubblico neanche per gli autori italiani con
anzianità di scrittura (così come non è mai esistito, nonostante il baccano
sulle piazze, un pubblico della poesia), figuriamoci per le opere prime.
Tornando a chi non riesce a farsi
pubblicare, per quel che ho potuto leggere di persona il raccolto è misero:
molta cenere e pochissimi diamanti. In genere i testi degli aspiranti scrittori
guardano compulsivamente al cinema e approdano allo sceneggiato televisivo,
fatto inevitabile considerando che i loro autori consumano certo più vita
davanti alla televisione che davanti alla pagina (la lettura – stando a una
recente inchiesta – occupa per esempio il sedicesimo posto negli interessi dei
giovani).
Perché la situazione è così compromessa?
Forse si stanno scontando i danni causati negli anni Sessanta dalla
neoavanguardia con la sua imposizione della testualità e negli anni Settanta
dall’istigazione alla creatività individuale. Per non parlare delle
responsabilità della critica, che ha rinunciato a certe esigenze di qualità
abbassando talmente il livello generale da renderlo palesemente accessibile a
chiunque. Tanto che qualunque aspirante scrittore può legittimamente indursi a
pensare: se il romanzo osannato è questo, allora sono in grado di scriverlo
anch’io.
Sono comunque dell’avviso che per un
esordiente sia meno facile di qualche anno fa arrivare alla pubblicazione: vi
concorrono la situazione economicamente più precaria della nostra editoria, il
consolidato privilegiamento della narrativa straniera, e tante altre brutte
cose su cui molto si è già discettato. Conclusione: aspirante scrittore vade
retro. Vistononsistampi (ammesso che si sia visto, cioè letto: ci sono case
editrici che rinviano subito al mittente i testi ancora chiusi nelle loro
buste, con risparmio postale). Così il vecchio adagio che lo scrittore si vede
al secondo romanzo risulta impossibile da verificare, dato che non esce il
primo.
Naturalmente non esiste invece il problema
di riuscire a pubblicare per i personaggi da prima pagina nei vari campi,
giudiziario incluso: nessuno rifiuterebbe il primo romanzo di Licio Gelli o di
Renzo Arbore, anche se Gelli prendesse a protagonista un entertainer con
corteggio di macchiette e Arbore un giallo a colpi di logge. A costoro si
strapperebbero le cartelle di mano via via che qualcun altro gliele scrivesse.
Così, anche se c’è qui da noi un clima
abbastanza favorevole al romanzo (ma mi domando se non si tratti più che altro
di un equivoco con i mesi contati), allo stesso modo che in altre attività i
posti sono tre e i candidati cinquemila. E per i tre posti si fanno sotto i
raccomandati di ferro, di ottone e di bronzo, e i servi furbi (anche se ormai
la furbizia è merce inflazionata: pochi non sono furbi al giorno d’oggi), il
tutto sovrastato dall’egida, sotto cui prospera ogni commercio, dei “signori
del cinismo”. Parafrasando Elzensberger, che ad anni come questi si debba
pensare con indulgenza, sarebbe chieder troppo.
Concludendo queste annotazioni, consiglierei
agli aspiranti scrittori di provare e riprovare a scrivere quello che capita
loro sotto gli occhi (e non altrove o on
the road), di sviluppare un po’ di più quelle forme di nevrosi che un tempo
si chiamavano umiltà e pazienza, e di ricordare infine l’età a cui esordì come
romanziere Daniel Defoe: sessant’anni.
Panorama, dicembre 1985
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Da Scompartimento per lettori e taciturni,
prefazione di Giovanni Giudici, introduzione di Piergiorgio Bellocchio, a cura
di Roberto Rossi, Feltrinelli, Milano 1997.