La città interiore
Nell'epoca della comunicazione globale, con tutta la retorica legata alla diffusione di Internet a livello planetario, l'uomo contemporaneo vive in realtà in abitazioni tecnologiche che lo isolano dal mondo esterno, sempre più percepito come minaccioso. Anche le città si sono trasformate in paesaggi unificati dall'anonimato e dalla mancanza di un progetto di vita comune fondato sui veri bisogni dell'uomo. La bellezza che resta (e in Italia non è certo di poco conto), quando non è segregata nei musei, è spesso mummificata a cielo aperto e non si raccorda più in modo vitale con gli spazi pulsanti che la circondano. Naturalmente esistono ancora luoghi che resistono, che sanno ancora coniugare, sia pure in parte, presente e passato, e dove un inguaribile cittadino come me potrebbe vivere (un nome poco originale per tutti: Parigi), ma ormai con un entusiasmo sempre più ridotto dal disincanto dovuto all'esperienza.
Ma, al di
là di ogni considerazione, non posso fare a meno di amare due città. La prima è
Milano, perché ci sono nato e in essa ho trascorso gran parte della mia vita.
La seconda è Venezia, che conosco dalla più tenera infanzia, grazie alla
presenza di una casupola a Castelfranco Veneto, dove le mie zie materne
accoglievano la mia famiglia durante le vacanze estive. È a Venezia che da
piccolo (avevo 4, forse 5 anni) ho visto per la prima volta la sofferenza e la
morte. Ricordo ancora oggi in modo nitido il piccione che nell’angolo affollato
di un ponte continuava a girare faticosamente intorno a se stesso, colle zampe
che ogni tanto cedevano e lo costringevano a rovesciarsi su un fianco.
Per un
po' di volte non si arrese, si rialzò e riprese la sua affannosa danza finché,
dopo una caduta identica alle altre, non si rialzò più. Mi colpì il suo aspetto
malato, i suoi piccoli occhi arrossati e le tante piume scompigliate che
sembravano sul punto di staccarsi. E poi quell'immobilità assoluta che
contrastava con il frenetico girotondo di pochi attimi prima. Fu un'autentica
rivelazione.
Credo che
i luoghi che più amiamo sono quelli legati alle epifanie che si incrociano con
la nostra vita: probabilmente avrei ricordato qualunque altro scenario in cui
quel frammento di realtà si fosse manifestato. Per caso fu a Venezia, in un
contesto fin troppo perfetto per quell'episodio, ma avrebbe potuto essere a
Brugherio o a Inveruno, e allora queste cittadine, per quanto anonime, si
sarebbero iscritte per sempre nella mia memoria. Così la città che veramente
amo non è rintracciabile nelle carte geografiche, è una città interiore che si
è formata grazie al legame che determinati ambienti hanno stabilito con certi
fatti della mia vita, spesso minimali, proprio nel momento in cui ero in grado
di cogliere la loro misteriosa e inquietante grandezza. È una città
dall'urbanistica complessa, spesso caotica, dove piazze, vie e vicoli convivono
a stretto contatto con la periferia e con la campagna. A 17 anni andai in gita
scolastica a Genova e lì vidi per la prima volta vicolo Prè, un concentrato
dell'umanità varia che i porti di mare offrono a chi si perde nei loro meandri.
In quell'umido ho avvertito la fatica di vivere in contesti degradati, ma ho
anche sentito con forza, per contrasto, la vitalità della nostra specie, e l'ho
riconosciuta nelle mie stesse vene. Il vicolo ora si trova, vicino e nello
stesso tempo lontano, a villa Emo, una costruzione palladiana immersa nella
campagna veneta. Si tratta di un esempio di fusione tra architettura e ambiente
citato nei manuali di storia dell’arte. Sono tornato in questo luogo nel luglio
scorso e, per la prima volta, sono penetrato nel centro della sua bellezza. Ero
l'unico visitatore. Dalla sala centrale le cui porte erano spalancate su due
viali simmetrici che si perdono nella campagna tra filari di alberi, in un
silenzio perfetto, ho visto all’improvviso i tendaggi delle finestre muoversi
impercettibilmente e una leggerissima brezza mi ha sfiorato. In un momento
irripetibile di sospensione temporale, mi sono sentito parte di quel
microcosmo, perfettamente integrato nell'essenza di quel paesaggio.
Nella mia
città-mosaico si trova anche il giardino zoologico di Milano, che oggi non
esiste più. Durante una visita con mio padre (siamo di nuovo nel periodo della
mia infanzia) vidi per la prima volta una pantera. Si muoveva senza sosta nella
gabbia e poi, con occhi di brace fissi sui visitatori, spalancava le fauci e
ruggiva. Quei suoni terribili che laceravano l'aria continuammo a sentirli
ancora per un po' anche dopo essere usciti dallo zoo, mescolati ai rumori del
traffico. Sentivo oscuramente quella pantera muoversi dentro di me, che quelle
fauci, quei denti acuminati erano i miei rivolti verso il futuro, e che volevo
vivere fino in fondo tutta la vita che avevo davanti a me, così misteriosa e
densa di promesse. E nello stesso tempo, che era molto difficile, quasi
impossibile, evadere dalla gabbia.
È in
questa città che ancora oggi mi aggiro e mi perdo, senza più la speranza di trovare
un’impossibile filo d'Arianna, ma in cui gli ambienti che riconosco mi permettono
ancora di gettare qualche esile ponte con i luoghi che attraverso nella realtà.