Lo scrivere non sarebbe altro che la capacità di somministrare
con le parole un’opinione al pubblico? Allora la pittura dovrebbe essere l’arte
di dire una opinione con i colori. Ma i giornalisti della pittura si chiamano
appunto imbianchini. E io credo che uno scrittore sia colui che dice al
pubblico un’opera d’arte. L’onore più grande fino a oggi me lo concesse un
lettore che mi confessò con imbarazzo che riusciva a capire le mie cose solo
alla seconda lettura. Esitava a dirmi che non riusciva bene a cavarsela col mio
linguaggio. Era un conoscitore e non lo sapeva. Le lodi del mio stile mi
lasciano indifferente, ma i rimproveri che mi vengono rivolti mi renderanno
presto superbo. Da molto tempo avevo realmente una certa paura che si potesse provare
soddisfazione già alla prima lettura dei miei scritti. E che? Una proposizione
deve servire al pubblico perché ci si sciacqui la bocca? I feuilletonisti, che
scrivono in lingua tedesca, partono in forte vantaggio rispetto agli scrittori,
che scrivono dalla lingua tedesca. Vincono al primo sguardo e deludono il
secondo: è un po’ come si stesse dietro le quinte e si vedesse che tutto è di
cartone. Negli altri invece la prima lettura è un po’ come un velo che copre la
scena. E allora chi dovrebbe applaudire? Quelli fischiano prima di vedere la
scena. Così si comportano i più; perché non hanno tempo. Davanti ai quadri
ammettono volentieri che non si tratta soltanto della raffigurazione di un
fatto che lo sguardo coglie subito: poi si sforzano di aggiungere un secondo
sguardo per avvertire qualcosa anche dell’arte dei colori. Ma un’arte della
costruzione di proposizioni? Se si dice loro che esiste una cosa del genere,
quelli pensano subito all’osservanza delle leggi della lingua.
Nella scienza della lingua un autore non deve essere
infallibile. Anche l’uso di materiale impuro può giovare a un fine artistico.
Io non evito espressioni vernacole, se servono a un’intenzione satirica.
L’arguzia, che lavora con rappresentazioni date e presuppone una terminologia corrente,
preferisce la lingua in uso alla lingua giusta, e nulla le è più estraneo
dell’aspirazione al purismo. Si tratta di arte del linguaggio. Che una cosa del
genere esista viene avvertito da cinque persone su mille. Gli altri vedono una
opinione e appesa a essa una battuta di spirito che si può mettere comodamente
all’occhiello. Non sospettano nulla del mistero della crescita organica.
Valutano solo il materiale. A partire dalla rappresentazione più piatta si può
raggiungere l’effetto più profondo: davanti allo sguardo del lettore che ho
descritto tutto tornerà a essere piatto. La banalità come elemento della forma
satirica: un calembour le resta in
mano.
Bisogna leggere due volte i miei lavori, per avvicinarsi a
essi. Ma non ho nulla in contrario se li si legge tre volte. Comunque
preferisco che non li si legga affatto, se li si deve leggere una volta sola.
Non vorrei prendere alcuna responsabilità per le congestioni di una testa vuota
che non ha tempo.
Bisogna leggere due volte tutti gli scrittori, i buoni e i
cattivi. Si riconosceranno i primi, si smaschereranno i secondi.
Ci sono certi scrittori che riescono a esprimere già in venti
pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono addirittura due righe.
Un aforisma non si può dettare su nessuna macchina da
scrivere. Ci vorrebbe troppo tempo.
Un aforisma non ha bisogno di esser vero, ma deve scavalcare
la verità. Con un passo solo deve saltarla.