Un giorno del 1942, avevo una gran voglia di
vedere Les visiteurs du soir (L’amore
e il diavolo, 1942), il film di Marcel Carné arrivato finalmente al mio
quartiere, al cinema Pigalle, e decisi di non andare a scuola. Il film mi piacque
molto. Ma quella sera stessa una mia zia, che studiava al conservatorio, passò
da me per portarmi al cinema. Aveva già fatto la sua scelta: Les visiteurs du soir e, dato che non
era proprio il caso di confessare che lo avevo già visto, me lo dovetti
rivedere, facendo finta di scoprirlo solo allora. Fu esattamente quel giorno
che mi accorsi di quanto era affascinante penetrare sempre più intimamente
nell’opera che ci piace fino quasi a provare l’illusione di riviverne la
creazione.
Un anno dopo arrivava Le corbeau (Il corvo, 1943) di Clouzot che mi piacque ancor di più:
dalla sua uscita (maggio 1943) alla liberazione, che segnò la sua proibizione,
lo avrò visto cinque o sei volte. Più tardi, quando tornò in circolazione, lo
rividi più volte all’anno fino a conoscerne i dialoghi a memoria, dialoghi
molto più spinti di quelli degli altri film e comprendenti un centinaio di
parole forti di cui andavo poco a poco scoprendo il significato; tutto
l’intreccio di Le corbeau era basato
su un’epidemia di lettere anonime che denunciavano aborti, adulteri e
corruzioni varie, fornendo un’immagine abbastanza fedele di quello che vedevo
attorno a me, guerra, dopoguerra, collaborazionismo, delazione, mercato nero,
espedienti vari e cinismo.
I miei primi duecento film li ho visti in
clandestinità, disertando la scuola o entrando in sala senza pagare –
attraverso le uscite di sicurezza o le finestre dei gabinetti – oppure
approfittando, di sera, dell’assenza dei miei genitori e con la necessità,
quindi, di trovarmi a letto fingendo di dormire al loro rientro. Pagavo questo
piacere con forti mali di pancia, lo stomaco imbarazzato, i capelli dritti
dalla paura, tutto preso da un senso di colpa che non poteva che sommarsi alle
emozioni che mi procurava lo spettacolo.
Sentivo
un grande bisogno di penetrare nei
film e ci riuscivo avvicinandomi sempre di più allo schermo per astrarmi dalla
sala; evitavo i film in costume, di guerra e western perché mi era difficile
identificarmi; per eliminazione non mi restavano che i polizieschi e i film
d’amore; contrariamente ai piccoli spettatori della mia età, non mi
identificavo con gli eroi « eroici » ma con i personaggi handicappati e più
sistematicamente con tutti quelli che si trovavano in colpa. Si capirà perché
mi abbia sedotto, all’inizio, l’opera di Alfred Hitchcock interamente
consacrata alla paura, e successivamente quella di Jean Renoir tutta rivolta
alla comprensione: « Ciò che è terribile su questa terra è che tutti hanno le
loro ragioni » (La règle du jeu,
1939). La porta era aperta: ero pronto a ricevere le idee e le immagini di Jean
Cocteau, Sacha Guitry, Orson Welles, Marcel Pagnol, Lubitsch, Charlie Chaplin
naturalmente e di tutti quelli che senza essere immorali « dubitano della
morale degli altri » (Hiroshima mon amour,
1959).
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